Un sequel che non sfigura affatto nel panorama arido dei blockbuster odierni, ma che si posiziona un gradino più in basso rispetto ai lavori precedenti del regista.
Bisogna ammetterlo: i temi che hanno reso di culto Blade Runner sono invecchiati male; ai replicanti oggi si sono sostituite le intelligenze artificiali e il progresso della robotica, ormai pronta a sostituire la fallace macchina umana e con la quale non potrebbero competere nemmeno i più avanzati umani “bioingegnerizzati”.
In questo contesto, aveva senso riprendere il mondo creato da Philip K. Dick e dargli un seguito? Come si coglie l’eredità pesante di un film oggi considerato fra i pilastri del genere fantascientifico, e tirarne fuori qualcosa di nuovo?
Nella frenesia hollywoodiana di sequel, prequel e franchise, la Sony tenta di inserire Blade Runner 2049 a metà fra un’operazione nostalgia e un sostanzioso blockbuster di fantascienza, affidando la regia a uno dei migliori registi in circolazione: Denis Villeneuve (Arrival, Prisoners).
Assieme al migliore direttore della fotografia vivente, Roger Deakins (che aveva già collaborato con il regista canadese in Sicario), Villeneuve ce la mette tutta a ricreare in modo quasi maniacale le atmosfere del primo film e, allo stesso tempo, a creare un’estetica nuova capace di stupire lo spettatore con la meraviglia delle immagini, come da sempre fa il grande cinema. Dal punto di vista visivo, quindi, l’esperimento si può dire riuscito.
Le scene migliori di questo noir fantascientifico, infatti, sono quelle in cui sono solo le immagini a parlare: il tripudio postmoderno della sala del casinò abbandonato dove K (Ryan Gosling) e Deckard (Harrison Ford) se le danno di santa ragione, il poetico e commovente laboratorio dove una scienziata crea i ricordi d’infanzia da innestare ai replicanti, i meravigliosi contrasti saturati fra colori caldi e freddi (banalizzati sulla locandina), alternati al classico buio pesto sferzato dai neon delle pubblicità sopra Los Angeles, sono le novità meglio riuscite del film.
A mancare, purtroppo, è la consistenza. Blade Runner 2049 ha un’evidente problema di scrittura, con un plot troppo elementare che viene riempito di escamotage narrativi ridondanti: innanzitutto, il ritorno dei cosiddetti spiegoni, che non lasciano spazio all’interpretazione e alla riflessione, elemento quasi del tutto mancante se si pensa alla ricchezza di spunti del primo film; proprio sui temi, durante la visione si ha una costante sensazione di déjà-vu che riporta alla mente decine di altri film in cui i temi presenti nell’opera sono stati trattati in modo migliore e più approfondito (impossibile non pensare a Lars e una ragazza tutta sua quando il personaggio di Mackenzie Davis dice a quello di Gosling che non gli piacciono le “ragazze vere”, e ancora più immediato il paragone con Her). In mezzo, poi, c’è di tutto, dalla bioetica al complesso di Dio (non a caso affidato al megalomane ma sempre impeccabile Jared Leto).
Mentre la lunghezza del primo film era funzionale alla riflessione, le oltre due ore e quaranta minuti del sequel non vengono usate quasi mai in questo senso, e il film è privo di “tempi morti” solo grazie alla bravura da regista e della splendida fotografia. Non aiuta, invece, la soundtrack fastidiosa e ingombrante, composta in fretta e furia da Hans Zimmer e dal suo allievo (anche se da tempo qualcuno lo considera ghostwriter) Benjamin Wallfisch dopo il licenziamento di Johann Johannsson a pochi mesi dall’uscita.
Per quello che riguarda la caratterizzazione e le interpretazioni, si passa da una delineazione psicologica complessa come quello di K alla feticizzazione e riduzione a mero interesse amoroso di Joi (Ana de Armas), l’intelligenza artificiale “compagna” del protagonista; e mentre Madame (Robin Wright) rientra nell’archetipo della donna forte da film d’azione e Niander Wallace in quella dell’ambiguo villain senza scrupoli, il personaggio più interessante è quello della spietata replicante interpretata da Sylvia Hoeks, vera rivelazione del film. Pigro e per nulla entusiasmante, invece, il ritorno di Rick Deckard, interpretato da un Ford che ormai recita un unico personaggio, quello del nonno scorbutico.
Proprio Deckard rappresenta l’elemento più debole del film, e la scelta di continuare la sua storia, se da una parte permette a Villeneuve di cimentarsi in quello che gli è meglio riuscito con Arrival, ovvero quella fantascienza umanista che porta un barlume di speranza in un universo distopico, dall’altra fa prendere al film una piega sentimentale e melensa che porta a una risoluzione banale e insoddisfacente.
Di sicuro non si poteva replicare lo straordinario finale del primo film, ma la sensazione di vuoto che lascia Blade Runner 2049 ci fa ricordare con nostalgia la grandiosità del film di Ridley Scott, scarno ed essenziale, un’indagine inedita e dirompente che ruotava tutta intorno a un’unica, difficilissima domanda: “cos’è che ci rende umani?”