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Negli ultimi anni si parla molto di una rivalutazione dei film di genere, da molti addirittura visti come ultimo baluardo per la salvezza di un cinema contemporaneo ormai appiattito. Ma di cosa parliamo quando parliamo di film di genere? Può la loro storia dirci cosa ci riserva il futuro?
Era il 1947 quando Theodor W. Adorno e Max Horkeimer coniarono il termine industria culturale in riferimento al modello capitalista di consumo della cultura, ovvero della cultura come prodotto per ammansire e conformare le masse e mantenere lo status-quo. Nel cinema, la loro critica si soffermava su Hollywood e i generi cinematografici, visti non come semplici “etichette” da applicare ai film per dare allo spettatore un’idea di quello che vedrà ma come metodo sistematico per standardizzare il prodotto e privarlo di qualsiasi elemento di novità o originalità che possa risvegliare lo spirito critico dello spettatore.
Nella Hollywood dello studio system, in effetti, il cinema di genere la faceva da padrone: i western, i gangster movie, gli horror, i film di fantascienza sono sempre stati fra i più redditizi; il loro schema ripetitivo, ricco di stereotipi e privo di sorprese rassicura lo spettatore medio con la promessa di un’evasione senza impegno dalla vita quotidiana.
Forse è proprio il successo che il pensiero dei due esponenti della Scuola di Francoforte (criticati già all’epoca dal “collega” Walter Benjamin) ha avuto e mantenuto negli anni ad aver dato ai film di genere un’accezione negativa che si conserva prepotentemente.
Eppure dal 1947 sono cambiate tante cose, e non solo nella tecnologia. La politica degli autori di François Truffaut ha fatto emergere la figura del regista non come semplice artigiano o tecnico che traduce sullo schermo una sceneggiatura ma come autore in grado di apporre il suo “tocco” al film. Di conseguenza i film di grandi registi come Orson Welles e Alfred Hitchcock sono stati elevati a “opere di autori”, in grado anche di sovvertire le convenzioni del film hollywoodiano che tanto annoiavano i critici, soprattutto quelli europei.
Chi rimaneva fuori dalle logiche degli studios e quindi dai grossi finanziamenti, però, doveva optare per film a basso costo, che venivano venduti ai cinema assieme a film più di richiamo; nascono così i b-movies, quelli a cui comunemente oggi in molti si riferiscono quando si parla di film di genere, che nonostante la poca rifinitezza stilistica e il sottostare rigidamente alle regole del genere di appartenenza, ispirarono intere generazioni di futuri cineasti.

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Dagli anni ’70, infatti, emerge un nuovo tipo di film di genere, che ha reso un gruppo di giovani registi padroni della cultura popolare dei successivi quarant’anni: con Lo squalo di Steven Spielberg si apre l’era dei blockbuster hollywoodiani, che nel loro periodo d’innovazione e massima creatività riuscivano a coniugare vecchi schemi e originalità formale, soggetti originali e valori tradizionali, cinema popolare e autorialità. La squadra capitanata da Spielberg, Lucas, Zemeckis (che comprende anche James Cameron, Peter Jackson e la produttrice Kathleen Kennedy) è riuscita a dare linfa vitale ai film di genere, ma allo stesso tempo ha creato un nuovo paradigma al quale successivamente tutti i cineasti che volevano fare quel tipo di cinema dovevano adattarsi, ritornando inevitabilmente alla “standardizzazione” del prodotto.
Un processo contrario sembra coinvolgere quello che è diventato il genere per antonomasia del ventunesimo secolo, il cinecomic (o cinefumetto). Nati come “macchine da soldi” e con schemi tipici dei film d’azione degli anni ’90, i film di supereroi col tempo hanno acquisito una propria cifra stilistica che si differenzia in base al regista e alla casa di produzione. Precursori ne sono stati certamente i due Batman di Tim Burton, ma è con Christopher Nolan da una parte e la creazione dell’Universo Cinematografico Marvel dall’altra che si arriva a quello che oggi copre gran parte del consumo mondiale di film.
Un altro genere sempre molto redditizio è l’horror, e da qualche anno è proprio da questa fucina che escono i talenti più interessanti; basti pensare al successo planetario di The Babadook di Jennifer Kent, o dei film della casa di produzione Blumhouse di Jason Blum, e in particolare di Scappa – Get Out di Jordan Peele, che dietro la facciata del genere horror nasconde una delle migliori satire sociali degli ultimi anni.
Nei paesi anglofoni infatti sono sempre più i giovani registi a giocare coi film di genere, spesso decostruendoli: è il caso dell’ormai cult Trilogia del Cornetto di Edgar Wright, in cui il regista riprende tre generi popolari, lo zombie-movie, il poliziesco e lo sci-fi, e li trasforma in tre brillanti commedie che giocano e sovvertono le convenzioni e gli stereotipi dei rispettivi generi (un’operazione totalmente diversa dalle parodie demenziali dei vari Scary Movie).
Finora ci siamo soffermati su Hollywood, ma qual è lo stato dei film di genere nel resto del mondo, e soprattutto in Italia?
Ad esclusione dell’Asia, che da Bollywood ai film di arti marziali passando per i kaiju giapponesi ha una propria tradizione di film di genere che riesce ad esportare con successo, il resto del mondo sembra aver sempre imitato le produzioni americane, nel nostro Paese in particolare con risultati sorprendenti.
È ovviamente il caso dei film di serie b all’italiana, come gli spaghetti western e i poliziotteschi, che ricalcano i codici dei b movies americani ma trovano una propria originalità e freschezza. Sono senza dubbio i film più popolari durante gli anni ’70, affiancati dalle commedie sexy. Negli anni ’80 verranno rimpiazzati dal fenomeno delle commedie di costume dei fratelli Vanzina, che in seguito creeranno il mostro dei cinepanettoni.
Questi ultimi infatti possono dirsi gli unici film di genere di successo in Italia degli ultimi trent’anni, ed è questo che forse ha spinto molti cineasti e critici ad allontanarsi dal cinema di genere in generale, accanto alla diffidenza che la classe intellettuale italiana ha sempre avuto per il cinema d’evasione e disimpegnato.
Negli ultimi anni anche in Italia, però, è stato avviato un percorso di rivalutazione dei film di genere. Oltre al successo di Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, che ha reso mainstream il dibattito sui film di genere nel nostro Paese, è da riconoscere il ruolo da pionieri fatto dai Manetti Bros, che con la serie L’ispettore Coliandro prima, e con film come Ammore e malavita poi, fanno rivivere sotto-generi come quello del poliziesco e della sceneggiata napoletana in modo originale e divertente.
Non a caso proprio Ammore e malavita è stato presentato in concorso alla 74ma Mostra del Cinema di Venezia nel 2017, segno di come anche da parte di critici e cinefili si avverta il bisogno di rendere omaggio e riportare in auge un tipo di cinema da sempre snobbato ma che fa parte della nostra vita fin dall’infanzia, e a cui dobbiamo tanto.
La domanda che ci ponevamo nel titolo, infine, appare scontata. I film di genere saranno il futuro del cinema semplicemente perché ne sono sempre stati il motore primo, la sua vera essenza, ciò che muove la gente a pagare un biglietto o a rivedere l’ennesima replica dei film di Bud Spencer in tv.
Solo grazie al cinema popolare si possono avere anche i film d’autore, quelli sperimentali e le piccole produzioni. E se la qualità non sarà sempre al massimo, prima o poi arriverà qualcuno a sovvertire gli schemi e a creare un nuovo paradigma, per tornare al punto d’inizio e così via.
Con buona pace di Adorno.