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Con l’uscita negli Stati Uniti di Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli si è tornato a parlare del modo in cui vengono rappresentate le donne, di finzione e realmente esistite, nel cinema contemporaneo.
Come scrive Wendy Ide sul Guardian in un articolo titolato From Nico to Tonya Harding, women’s stories are being told on film at last, negli ultimi anni sono in aumento i biopic che vedono protagoniste storie di donne: si passa dalle produzioni indipendenti come Nico, 1988 e Christine (sulla tragica vita della presentatrice televisiva Christine Chubbuck) a film hollywoodiani come Hidden Figures e Battle of the Sexes.
In particolare, però, si nota una tendenza a mostrare il lato autentico, a volte peggiore, dei personaggi, svolgendo un’operazione di decostruzione del mito della persona famosa ma allo stesso tempo del personaggio in quanto donna, e quindi figura che per oltre un secolo di cinema è stata circondata, o per meglio dire intrappolata, in un’aura di perfezione e irrealtà.
Nel film della Nicchiarelli (qui la nostra recensione), ci vengono mostrati gli ultimi anni di vita della cantante e modella, famosa per essere stata musa di Andy Warhol e aver inciso un album coi Velvet Underground. Quella che all’inizio sembra una parabola discendente, con lo sforzo di Nico di essere apprezzata come cantante solista che si rivela un insuccesso, si trasforma in un atto di liberazione, esplicitato proprio dalle parole fatte dire alla protagonista: “non ero felice quando ero bella”.
Libera dalle costrizioni del suo passato, Nico adesso è Christa (il suo vero nome), una donna invecchiata precocemente, trascurata, ancora in lotta con le dipendenze, ma finalmente in pace con se stessa e con i suoi fallimenti, decisa a riaffermare la sua volontà di essere imperfetta.
Il velo di Maya delle donne nel cinema, quindi, si identifica con la patina di glamour che avvolge la stragrande maggioranza dei personaggi femminili, e che in molte e molti tentano di raschiare via.
Come in Tonya di Craig Gillespie, una delle commedie di maggior successo dello scorso anno, dove il racconto della vera storia della pattinatrice Tonya Harding è solo un pretesto per fare un ritratto spietato della società americana e dei personaggi che la abitano.
La Harding è stata una delle pattinatrici più talentuose della sua generazione ma è anche una persona rozza, sgradevole, con un dubbio gusto nel vestirsi e una totale mancanza di eleganza che le costerà caro nel giudizio delle sue performance.
Nel film, Tonya ha il volto di Margot Robbie, bravissima attrice australiana che, dopo aver raggiunto la fama con The Wolf of Wall Street, avrebbe potuto accontentarsi di continuare la sua carriera con ruoli da femme fatale o da perfetta mogliettina bionda; invece ha deciso di rischiare con una prova che non prevedeva solo l’imbruttimento fisico (raggiunto dall’attrice con l’aiuto minimo del makeup che valorizza una mimica straordinaria) ma anche quello morale, mettendosi nei panni di una delle donne più odiate d’America.
Sebbene la vedremo di nuovo in veste glamour nei panni di Sharon Tate nel nuovo film di Quentin Tarantino, nel trailer di Mary Queen of Scots la Robbie si lascia di nuovo andare a una smorfia che le trasfigura il viso e che richiama la celebre “maschera” di Gloria Swanson in Viale del tramonto.
Il capolavoro di Billy Wilder, che proprio in questi giorni celebra 68 anni dall’uscita nelle sale americane, mostrava una star del muto decaduta. La Swanson all’epoca aveva appena 50 anni e si trovava nella stessa posizione del personaggio che interpretava, ormai ritiratasi da anni dalle scene e già troppo anziana per gli standard di Hollywood.
Lo star power dell’attrice era così basso che, addirittura, in alcune locandine italiane del film appare solo il nome di William Holden; non certo un segno di lungimiranza da parte dei distributori italiani, dato che Norma Desmond è diventata col tempo uno dei personaggi più celebri e riconoscibili della storia del cinema, ma Viale del tramonto rimarrà un caso isolato per parecchi decenni per quanto riguarda l’importanza di ruoli assegnati ad attrici di mezza età.
Oggi sembrano lontani i tempi in cui Angela Lansbury interpretava la madre di Laurence Harvey in Va e uccidi (The Manchurian Candidate) nonostante avesse solo tre anni in più di lui, e Hollywood sembra temere molto di meno la vecchiaia delle sue star.
Basti pensare a due delle uscite “calde” di quest’estate: il sequel di Mamma Mia (in uscita in Italia il 6 settembre) con Meryl Streep, Cher, Christine Baranski e Julie Walters, e Ocean’s 8 con Cate Blanchett, Sandra Bullock, Helena Bonham Carter e Sarah Paulson; tutte attrici sopra i quaranta con ruoli da protagoniste.
Diversa è la situazione in Italia. Nonostante la tradizione del neorealismo ci abbia resi antesignani di personaggi femminili autentici, col tempo le donne protagoniste sono state sempre meno e sempre più irreali, tant’è che addirittura si fatica a ricordare film di successo completamente incentrati su una figura femminile che siano successivi ai tempi di Anna Magnani e Sophia Loren. L’esempio più recente è forse Malèna di Giuseppe Tornatore, ma per la passività della protagonista e per la prospettiva esclusivamente maschile con cui viene indagato il personaggio, non può nemmeno essere preso in considerazione in quest’analisi.
Ancora più desolante il campo dei biopic, dato che in Italia sembra un genere destinato solo alle fiction – e questo a maggior ragione rende il film della Nicchiarelli un caso unico nel nostro Paese.
Forse la soluzione, per il cinema italiano e non solo, sta proprio nell’investire su autrici e autori che sappiano come costruire personaggi femminili tridimensionali e farli protagonisti di storie non convenzionali, e su attrici che puntino più a capire nel profondo tali personaggi e renderli veri invece che ricercare l’ennesima interpretazione “intensa”.
Autrici che sappiano farti amare un personaggio mostrandone anche i lati peggiori, e attrici che sappiano dire “non ero felice quando ero bella”.