C’era una volta a… Hollywood: la recensione del film di Quentin Tarantino

Sony Pictures Entertainment

Attenzione: la recensione contiene spoiler!

Presentato al Festival di Cannes lo scorso maggio, C’era una volta a… Hollywood è finalmente arrivato nelle nostre sale il 18 settembre. Il nono film di Quentin Tarantino è anche il suo progetto più personale, portato sul grande schermo dopo anni di gestazione. 

Leonardo DiCaprio interpreta Rick Dalton, una star della televisione dalla carriera in crisi, mentre Brad Pitt è Cliff Booth, lo stuntman di Dalton che, in mancanza di lavoro, si reinventa suo autista e tuttofare. I destini di questi personaggi fittizi si incroceranno con quelli di figure realmente esistite, come Sharon Tate e Roman Polanski, Bruce Lee, Steve McQueen, e in ultimo luogo Charles Manson e la sua “Family”. 

C’era una volta a… Hollywood è Tarantino all’ennesima potenza: lunghi dialoghi, soundtrack memorabile e così tante inquadrature di piedi che a un certo punto sembra quasi una parodia di se stesso; il solito citazionismo qui viene portato agli estremi, e il film stesso diventa un simulacro di quel tipo di cinema (e di televisione) amati dal regista. Una rievocazione curata nei minimi dettagli, una lettera d’amore non solo alla Hollywood degli anni ‘60 ma alla stessa Los Angeles, con le sua strade, i suoi cinema, le innumerevoli insegne al neon che si accendono rassicuranti al calar della sera.

Tutti i personaggi (veri e finti) sembrano degli archetipi – i due protagonisti non sono mai veramente approfonditi e delineati psicologicamente, e la Tate interpretata splendidamente da Margot Robbie è semplicemente l’incarnazione della leggerezza e della gioia di vivere degli anni ‘60 – ma più spesso appaiono come macchiette, come accade con Bruce Lee, con il produttore interpretato da Al Pacino e con la Family di Manson.

Tarantino se la prende comoda, e sviluppa l’intera narrazione attorno ai due personaggi principali, soffermandosi a lungo sulle loro vite quotidiane e mettendo a confronto il divo Dalton con il “semplice” Booth; e se DiCaprio ci regala l’ennesimo personaggio sopra le righe, è Brad Pitt a sorprendere e a rubare la scena al suo comprimario con un’interpretazione sorniona e misurata. 

Cliff Booth, in fin dei conti, è il vero (super?)eroe del film, l’incarnazione della working-class americana, genuina, tutta d’un pezzo e senza fronzoli – probabilmente repubblicana, sicuramente reazionaria – che non si lascia incantare dalle sirene hippie e mantiene saldi i suoi princìpi (pazienza che si dice abbia ucciso la moglie, ma nessuno è perfetto a Hollywood).

Per tutto il film, però, si è pervasi da una tensione per quello che sappiamo accadrà, prima o poi: il brutale omicidio di Sharon Tate e dei suoi amici da parte di alcuni membri della Family. Ed è proprio alla fine che il tarantinismo tocca le vette più alte, con l’esplosione di violenza (che arriva molto tardi rispetto al solito) e un plot twist tanto telefonato quanto appagante.

Ed è qui che si apre una riflessione su quello che ha significato quell’evento, che ha posto fine alla spensieratezza e ai tempi dei figli dei fiori portando al disincanto e alla brutalità degli anni ‘70: non è un caso che, a cinquant’anni dalla tragedia, tra il 2018 e il 2019 siano usciti altri tre film che in un modo o nell’altro fanno riferimento a quella maledetta notte del 9 agosto 1969: Charlie Says di Mary Harron, The Haunting of Sharon Tate di Daniel Farrands e, in modo molto più blando e indiretto, 7 sconosciuti a El Royale di Drew Goddard; quello che sorprende, però, è che in tutti e quattro i film l’evento clou viene modificato e il trauma, invece che essere rielaborato, viene rimosso.

Se nel film di Harron viene inserita una fantasia come finale alternativo, una possibilità di redenzione per chi ha commesso quell’orrendo crimine, in Goddard, Tarantino e Farrands la vendetta è l’unica arma per esorcizzare il male, e si ripagano i carnefici con lo stesso trattamento che loro hanno riservato alle loro vittime. Ed è proprio in Tarantino che questo finale alternativo prende i risvolti più favolistici e infantili (non a caso il titolo del film è la frase d’apertura delle favole), come se fosse bastato evitare quegli omicidi per non porre fine al sogno hollywoodiano. 

Sta tutta qui, alla fine, la chiave di lettura di C’era una volta a… Hollywood, una delle opere meno riuscite del regista a livello tecnico e di scrittura, ma anche il suo film “meno di testa”: la fantasia di un bambino che non vuole che i suoi eroi muoiano.

Voto: 6.5 / 10

C'era una volta a… Hollywood

2019
Di: Quentin Tarantino
Con: Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Margot Robbie, Emile Hirsch, Margaret Qualley, Timothy Olyphant

Rick Dalton, un attore televisivo, e Cliff Booth, la sua controfigura, intraprendono una personalissima odissea per affermarsi nell'industria cinematografica nella Los Angeles del 1969, segnata dagli omicidi di Charles Manson.